A getto continuo: le grandi della letteratura

Serbatoio perenne di saggezza e di visioni, “Le grandi della letteratura” propone e commenta testi più o meno lunghi di celebri autrici, la cui vastità di significato esige di essere perlustrata con perseveranza e spirito d’avventura. Sono, questi, concetti espressi non soltanto in alto stile letterario ma tali da indicare un cammino, o un’esperienza, o un senso, per chi, come me, ne è a caccia e crede nel potere trasformante della parola.

Flannery O’Connor. La signorina Willerton si sedette alla macchina per scrivere…

… e fece un respiro profondo. Allora! Cosa aveva deciso? Ah, sì. Fornai. No, i fornai non andavano bene. Non c’erano tensioni sociali connesse ai fornai. La signorina Willerton restò seduta con gli occhi sulla macchina per scrivere senza vederla. ASDFG: il suo sguardo vagò sui tasti. Ummm. Insegnanti?, si chiese la signorina Willerton. No. Santo cielo, no.

C’è un racconto di Flannery O’Connor intitolato “Il raccolto” che prende di mira un’illusione abbastanza diffusa. Lo consiglio caldamente a tutte/tutti coloro che si ritengono grandi scrittrici e scrittori. Naturalmente ci ho fatto i conti per prima, ridendo innanzitutto di me. Lo trovate nell’edizione italiana dei tascabili Bompiani “Tutti i racconti”. Ecco un passaggio dei più esilaranti.

Ecco! Ma certo! Ora sapeva! Le sue dita frullarono eccitate sopra i tasti della macchina, senza toccarli. Poi, all’improvviso, cominciò a scrivere a gran velocità.
“Lot Motun” scrisse la macchina, “chiamò il suo cane”. La parola cane fu seguita da una brusca pausa. La signorina Willerton era bravissima con la frase d’attacco. “Le frasi d’attacco”, diceva sempre, “ le venivano… di botto!”. “Di botto, ecco!” diceva, e faceva schioccare le dita. “Di botto!”. E su di esse costruiva il racconto. “Lot Motun chiamò il suo cane”, le era venuta automaticamente, e rileggendola la signorina Willerton decise che non solo Lot Motun era un buon nome per un mezzadro, ma anche chiamare il cane era proprio la cosa giusta da fare…

 Non vi dico come va a finire, il travaglio si svolge in sole dieci paginette.

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Jeanette Winterson. Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa

Ho letto il secondo romanzo autobiografico, dopo “Non ci sono solo le arance” del 1994, di Jeanette Winterson intitolato “Perché essere felice quando puoi essere normale?”. Questa domanda, che è tutta un programma, le veniva posta dalla madre adottiva, la terribile, fanatica, anaffettiva Mrs Winterson. Dice Jeanette a un certo punto: “Io avevo bisogno delle parole perché le famiglie infelici sono cospirazioni di silenzio. Chi rompe il silenzio non viene mai perdonato. Lui/lei deve imparare a perdonarsi”.
In questo mese di aprile sto tentando di non affogare intorno alla boa (capitolo) numero 30 del mio secondo romanzo, che ne prevede almeno altri cinque o sei. E ancora una volta le considerazioni di Jeanette Winterson sulla scrittura confermano la mia incessante sensazione che il lavoro più grande consista nel decidere cosa dire e cosa passare sotto silenzio e che in fondo il vero romanzo sia quello non scritto.

“La verità è molto complessa per tutti. Per uno scrittore le omissioni rivelano tanto quanto le cose dette. Che cosa si cela oltre il margine del testo? Sono tante le cose che non riusciamo a dire perché sono troppo dolorose. Ci auguriamo che le cose che riusciamo a dire attenuino la sofferenza del non detto o in qualche modo la plachino.
Le storie sono una forma di compensazione. Il mondo è ingiusto, iniquo, inconoscibile, incontrollabile. Nel raccontare una storia esercitiamo il controllo, ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. È una versione possibile, non è mai la definitiva. E forse speriamo che i silenzi vengano ascoltati da qualcun altro, e che la storia possa continuare, possa essere riraccontata. Quando scriviamo offriamo una storia e un silenzio.
Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa”.

Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale?, 2012

 

 

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La gioia di scrivere. Wislawa Szymborska

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.

Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.

In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare. (altro…)

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Dalla Cornovaglia alle Orcadi. Buon Natale con Doris Lessing

Frances è una mamma alternativa degli anni ’60, che comprendendo il disagio dei giovani li accoglie intorno alla sua tavola, il centro emozionale di una grande casa e di uno strano clan, sfamando e dando ascolto ai suoi ragazzi e ai loro numerosi amici e amiche di passaggio, spesso ospitandoli per lunghi periodi.
Brano tratto da
Il sogno più dolce (The sweetest dream), 2001, Doris Lessing, nella traduzione di Monica Pareschi per Feltrinelli.

Frances era seduta da sola in cucina, e il tavolo che aveva spolverato e lucidato brillava come uno stagno. Era davvero un bellissimo tavolo, pensò, adesso che finalmente si poteva ammirare. Né piatti né tazze, e soprattutto niente gente. Era Natale e… (altro…)

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“Io Sono Molte”. A Genova il Convegno della Società Italiana delle Letterate – SIL

Si svolgerà a Genova dal 18 al 20 novembre 2011 il Convegno della Società Italiana delle Letterate (SIL) dal titolo “Io Sono Molte. L’invenzione delle personagge”. Il Programma su: www.societadelleletterate.it (altro…)

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Alice Munro. Il peso solenne della banalità

La frase proviene dai profondi universi di Alice Munro, da noi giocosamente soprannominata  “Il bisturi canadese”. Munro non è soltanto una celebre scrittrice,
è uno strumento diagnostico e all’occorrenza chirurgico per l’estrazione/asportazione delle verità più sconcertanti, quelle inammissibili e impronunciabili. Fra le due innocue vecchiette, Alice Munro, 80 anni, Doris Lessing, 92 suonati, quale sia il caterpillar più potente non saprei. Entrambe penetrano i territori psichici secondo una traiettoria rettilinea, una parola dietro l’altra, in tracciati di assoluta linearità. Me le immagino sferruzzare dentro le cabine di guida dei loro rispettivi bestioni, mentre calano le ruspe con micidiale precisione. Nulla può arrestare la loro avanzata. (altro…)

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