FLASH. Il mio raccontino di Natale

A parte il fatto che era geneticamente ostile a quella pagliacciata, non capiva come fosse finita lì dentro. Non aveva messo in atto tutte le strategie perfezionate nel corso di una lunga e orgogliosa carriera di trasgressiva? Imboccare viuzze laterali, proseguire per parallele poco frequentate, svoltare in vicoli semideserti, sostare in angoli fuori mano per consultare la cartina, rinunciare alla mèta, se necessario, violando perfino le norme di buonsenso che una donna deve osservare per la propria incolumità personale. Fanculo, carogne. All’inferno voi e quel groviglio di amebe che strisciava davanti alle vetrine. Il male extra large, diffuso dai media fra informazione e istigazione a delinquere – certo, vista la rarità di trasmissioni sulla parte sana e generosa dell’umanità – e il male small, tipo veleno a rilascio lento praticato dalla gente comune, non erano entità immateriali. Erano organismi parassiti innestati nel corpo di individui predisposti. Ergo, c’era poco da festeggiare nel mondo schifoso in cui vivevano. Nascevi nel posto sbagliato ed era la fine. O l’inizio del calvario. Indifferenza e spreco. Ingiustizia e violenza a 360 gradi. L’Apocalisse era arrivata e nessuno ci faceva caso. Oltre a Save the Children, Green Peace, Emergency e alle poche migliaia di sballati che, in una lotta impari su tutti i fronti, salvavano la Terra ogni secondo dalla distruzione totale, bisognava istituire dei corpi speciali per eliminare metà della razza. Ma cosa andava blaterando? I pensieri le scendevano in gola, parlava da sola. Più della metà! Porca miseria, si era distratta, addobbi in vista, gira di qui, deficiente! Ce l’aveva fatta per un pelo.
Aveva superato indenne un percorso minato, con Amy Winehouse sparata in cuffia per coprire gli odiosi scampanellii di Jingle Bells e altre vomitevoli melodie che riecheggiavano dagli altoparlanti. Se avesse potuto li avrebbe fatti saltare per aria con una raffica di mitra. Ora però non sapeva perché si trovasse all’interno di un negozio. Quale forza ce l’avesse condotta. Era sempre stata contraria a fare regali per le feste comandate, un incubo che andava dai primi di dicembre ai primi di gennaio passando attraverso la scandalosa notte dell’ultimo dell’anno. E non sapeva neanche perché si rigirasse fra le mani una Mont Blanc per Emma, che non se la meritava nel modo più assoluto. Passi le feste, tanto ormai c’era abituata e non gliene fregava niente, le avevano sempre messo addosso una noia mortale, ma farle separate, e non per colpa sua, nelle rispettive famiglie, altro concetto cui era geneticamente ostile, non aumentava l’allegria. Non era difficile da capire. A forza di tirarla, la corda si spezza. Aveva studiato una linea difensiva, ragionato in termini scientifici e metafisici, sociologici e antropologici, psico-introspettivi, niente da fare, alla fine era complicato sottrarsi al nauseante dilagare dell’amore. Auguri un corno. Tutta quell’esibizione di altruismo e di gioia, nonostante si impegnasse allo spasimo per minimizzarla, le procurava una tristezza abissale. Non era un buon segno, se fosse stata davvero immune, il suo stato d’animo sarebbe stato imperturbabile come quello di una monaca zen appollaiata su un cucuzzolo in bilico sul vuoto, cristallino e algido come un ghiacciaio perenne. Emma in un certo senso aveva ragione, perché turbare la tranquillità dei suoi anziani genitori invitando al pranzo di Natale un’amica sospetta, mai vista né conosciuta? Come giustificare di punto in bianco la presenza di un’estranea, ma soprattutto come assemblare un’anamnesi credibile? La storia era andata avanti così per anni, fratelli, sorelle, cognate, nipoti, nessuno ne sapeva niente, e più passava il tempo più diventava assurdo mettersi a giocare a carte scoperte, quasi egoistico, lo aveva ammesso, ormai che senso poteva avere. Poi, con moto lento e progressivo, la cosa aveva cominciato a infastidirla, fino a trovarla anacronistica. E volendo essere completamente onesta, mortificante. Doppia tristezza. Lei il giorno di Natale andava a pranzo a casa di suo padre dove c’era lui mezzo sordo – gli mancavano quattro anni a fare cento – che stava a tavola con il busto incastrato fra lo schienale della sedia e il bordo per non cadere, e la badante che si metteva in ghingheri, compreso un filo di trucco, per rispetto delle tradizioni locali e per non deludere le aspettative della datrice di lavoro in visita ufficiale, peraltro uguali a zero. Lo faceva per affetto, non per ipocrisia, ma questo non rendeva la scena meno patetica. Lei era figlia unica, perciò la compagnia finiva lì, erano loro tre, quattro con la televisione sintonizzata sul concerto di Natale dalla basilica di Assisi.
Si fece fare un pacchetto elegante, pagò in contanti, lo mise in tasca e per vie traverse lontane dagli schiamazzi e dallo sfarfallìo delle luci si incamminò verso casa. Stava pensando a cosa avrebbe cucinato per cena, poi ricordò che avevano deciso di andare a mangiare la pizza, quando incrociò due pastori. Gilet di pecora, mantelle nere, Nike ai piedi, auricolari penzoloni al collo, soffiavano con gote cianotiche dentro zampogne sintetiche, esercitandosi prima di immettersi nella transumanza principale, e producevano una tempesta di suoni acuti che le perforavano i timpani e giungevano dritti all’ipotalamo alterandole il sistema endocrino, ne era certissima. Nonostante avesse fatto il giro largo, si era fatta sorprendere come una principiante! Deviò con scarto isterico, affrettò il passo, si mise quasi a correre e rallentò solo dopo avere riacquistato una distanza sufficiente a farle dimenticare l’imboscata. Più avanti dovette dribblare un insediamento improvvisato, all’andata non c’era, di bancarelle ricolme di dolciumi catarifrangenti, se te ne appiccicavi uno sulla schiena potevi andare in bici nella nebbia, poi tutto riprese a filare liscio com’era giusto che fosse. Adesso era rilassata e s’infilò all’interno di una chiesa, si sedette su una panca in fondo e stette ad ascoltare il silenzio. Inalando un profumo che le sembrò d’incenso e lasciando correre lo sguardo in alto fino alle volte a crociera, cominciò a sentirsi una ladra. Ma in fondo, che male c’era? Forse che i praticanti erano tutti degli stinchi di santo? Neanche per sogno. Mise una moneta nella cassettina delle offerte, accese una candela e osservò la fiammella stabilizzarsi in forma ovale, blu al centro, gialla intorno. Aveva espresso un desiderio? Una preghiera? Sì, l’aveva fatto. Non che avesse mai ottenuto dei risultati, sapeva di non avere i requisiti necessari anche solo per sperare di essere ascoltata, figurarsi per essere esaudita, ma tentare non le costava niente. Magari, per distrazione, questa volta sarebbe toccato qualcosa anche a lei. Non aveva chiesto per sé, non del tutto, perché migliorare la propria relazione di coppia poteva avere ricadute sociali positive. Restò lì, ipnotizzata dal chiarore intermittente, poi si riscosse e si diresse verso il presepio indicato da una freccia. Le piacevano i presepi, soprattutto quelli napoletani con i mestieri e le osterie, ma quello non lo era. Però era fatto con garbo, l’acqua sgorgava dalle fontanelle, le finestrelle erano illuminate, il cielo passava dall’alba al tramonto, prima rosa poi azzurro poi arancione, infine nero stellato, e il ciclo ricominciava con l’aurora e il canto del gallo. La veduta d’insieme trasmetteva pace e serenità, esattamente quello che le ci voleva, quindi si avviò verso l’uscita. Con quella piccola scorta, l’esterno le sembrò meno fastidioso.
Va beh, dai, si rincuorò giunta sotto casa, sopravviverò, come sempre. Domattina do il regalo a Emma, sarà contenta di aggiungere una nuova stilografica alla sua collezione, quando esce metto in ordine il garage, è mesi che lo rimando e che me lo rinfaccia, finché si fa l’ora di andare a pranzo da papà. Ma dove vado. Papà è morto quest’estate.

(copyright 2016 cristina zanetti)

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