“I territori della scrittura” ©. Discorso introduttivo di Cristina Zanetti – Biblioteca Italiana delle Donne, Bologna, 29.5.13

Presentazione di Stop Movie. Photo Gallery completa in www.stopmovie.it

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 Ringrazio Annamaria Tagliavini, direttrice della Biblioteca Italiana delle Donne, per avermi invitato alla Rassegna “Donne che scrivono a Bologna” e l’onnipresente Giovanna Gozzi, che ci ha assicurato una calda accoglienza e si è prodigata per agevolare la comunicazione fra le autrici.

Prima di parlare di Stop Movie, il mio romanzo d’esordio, vorrei “somministravi una breve requisitoria” per darvi subito l’idea di chi vi trovate davanti. Lo farò utilizzando qualche citazione, per farvi vedere dove mi situo nel mondo della scrittura e come la intendo. Scrivere infatti comporta la consapevolezza del processo creativo e un’autoriflessione costante. Perdonate se, per ottimizzare i tempi, seguirò la traccia degli appunti scritti che ho preparato per evitare di aprire parentesi su parentesi. Poi parlerò a braccio. Ho scritto tutta la vita, per lavoro, per militanza, per studio, ma sono arrivata concretamente alla narrativa abbastanza tardi. In mezzo ho fatto altre esperienze di tipo artistico/espressivo, soprattutto la musica, ma la scrittura, quella creativa, aspettava in panchina dall’adolescenza. Un primo tema molto importante che voglio affrontare per poi toglierlo di mezzo definitivamente, col vostro permesso, mi è fornito da J. Winterson, una delle scrittrici culto del mondo anglosassone.

 Jeanette Winterson dalla raccolta di saggi di critica letteraria “L’Arte dissente”. “Recentemente, mentre mi trovavo in libreria, mi si è avvicinata una ragazza. Mi disse che stava scrivendo un saggio sulla mia opera e sull’opera di Radclyffe Hall. Potevo darle qualche suggerimento? “Certo” le dissi. “Non hanno nulla in comune”. “Credevo che lei fosse lesbica” rispose.
“Ho capito che la differenza sessuale di una scrittrice è ritenuta di per se stessa sufficiente ad accomunarla, in una sorellanza semiotica, a ogni altra scrittrice, anche lei lesbica, morta o viva che sia. Dopotutto sono una pervertita, e dunque non mi dispiacerà dividere il letto con un cadavere. Questo letto a forma di libro, questo libro a forma di letto, devono andare bene per tutte noi perché, a prescindere dallo stile, dalla filosofia, dalla classe, dall’età, dagli interessi e dal talento individuale, siamo lesbiche, e non è forse questa la chiave dorata per aprire la porta del nostro lavoro?”. “Io spero ormai di avere convinto i lettori del fatto che tutta l’arte, compresa la letteratura, vada molto al di là del suo argomento”.

In parole povere, quando chiedono a Winterson, e glielo chiedono fin troppo spesso, se viene prima la lesbica o prima la scrittrice, risponde sempre che viene prima la scrittrice. Vale anche per me, in scala ridotta. Capisco che possa sembrare poco credibile, in mezzo c’è stata, e c’è ancora seppure in misura ridotta, la militanza. Siamo donne gravate di più missioni, su questo non c’è dubbio. Ma come Winterson, e sempre in scala ridotta, preferirei che la mia identità non fosse usata per definire i miei romanzi. Uso il plurale perché ho già terminato il secondo.

Ma proseguiamo con Winterson e i territori della scrittura

“Le emozioni terribili, non quantificabili, innominabili sono il territorio dello scrittore e averle in corpo è come essere il dottor Jekyll e Mister Hide”.  Anch’io faccio parte, in scala ridotta, di questa specie di scriventi. I temi che affronto sono dolorosi e difficili, ma il piagnisteo non è nelle mie corde. Ne deriva un cocktail dissacrante dove la scrittura è volutamente sfasata rispetto al contenuto. Come dico nei ringraziamenti di Stop Movie: l’ironia è necessaria per convivere con le grandi emozioni.  

Bisogna anche tenere presente, sempre sulla scorta delle considerazioni di Winterson, che “la verità è molto complessa per tutti. Nel raccontare una storia esercitiamo il controllo, ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. È una versione possibile, non è mai la definitiva”.

Io penso che ognuna/o abbia molte cose da raccontare, se riuscisse a raccontarle, o da scrivere, se riuscisse a scriverle. Molte volte la differenza è data solo da questa prima capacità, ognun* di noi abbonda di storie. La seconda capacità è quella di accorgersi di avere delle storie da raccontare, e la terza è avere il coraggio di raccontare le proprie storie.

A proposito del fatto che tutt* abbiamo/avremmo molte cose da dire e da dirci, facciamo un salto nel Novecento americano, citando Flannery O’ Connor  (1925/1964) che  in modo molto divertente nella raccolta di saggi “Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere”  (vedete come ritorna il tema del territorio) dice: “Chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia possiede abbastanza informazioni sulla vita per il resto dei suoi giorni”.

Poi ci sono anche coloro che, oggettivamente, hanno vissuto esperienze molto più forti di altri, come forse nel mio caso, ma anche qui la differenza è data dalla capacità di trasmetterle, viceversa quelle esperienze restano LETTERA MORTA, come infatti si dice.

Voglio fare una piccola digressione sull’autobiografia, un genere tanto negletto e vituperato. E’ un concetto da superare, stiamo parlando del sesso degli angeli. Non ha importanza che il contenuto sia autobiografico, la cosa importante è che la storia, attraverso la narrazione, assuma i caratteri dell’universalità e la gente possa riconoscervi sentimenti e situazioni umane.

La scrittura, come dice Isabel Allende ne “Il mio paese inventato”
“… rappresenta un esercizio costante della nostalgia”
“ e la memoria è un labirinto dove i dinosauri sono in agguato”.
“Si dice che il processo mentale dell’immaginazione e quello della memoria siano talmente  simili da essere quasi inscindibili. Chi può dire cosa sia la realtà?”.
“La memoria è condizionata dalle emozioni…”

A questo punto vi siete accorte/i che sono una lettrice compulsiva, fa parte oltre che dei piaceri della vita, certamente del mestiere di scrivere, non si può scrivere senza leggere, non si può fare musica senza ascoltarla. E nei testi delle maestre della letteratura che mi hanno preceduto e sempre mi precederanno trovo altre analogie col mio modo di intendere la scrittura.

Isabel Allende nel prologo a “La somma dei giorni” dice: “Se bisogna scegliere fra raccontare una storia e offendere i parenti, ogni scrittore professionista sceglie la prima ipotesi. Se intendiamo la categoria “parenti” nel senso più ampio, includendovi amicizie e conoscenze, ed eliminiamo la parola “professionista”, non si può negare che anch’io abbia optato per la prima ipotesi”. E posso affermare insieme a Isabel Allende che “Nessuno della mia famiglia è mai stato in terapia, nonostante qualcuno di noi fosse un vero caso clinico”. “Devo molto a tutti quegli scheletri nell’armadio, perché mi hanno instillato il seme della scrittura”.

Ma veniamo a Stop Movie, e al suo incipit.

Bruno Traversetti (critico letterario, saggista, regista) nel suo studio “Incipit. Tecniche dell’esordio nel romanzo europeo” (1988) definisce l’incipit come “l’esplosione semanticache genera e avvia il cosmo romanzesco e ci consente di individuarne i caratteri, di intuire panorami e sviluppi futuri” e questo “avviene non appena leggiamo le prime dieci righe”.
Ho voluto citare questa splendida definizione per smentirla: chi tentasse di dedurre gli sviluppi successivi di Stop Movie dall’incipit non ci riuscirebbe, ma per metterlo sulla buona strada potrei  citare una frase della mamma adottiva di J. Winterson che le diceva: “Perché essere felici quando si può essere normali?”.  Madri del genere non fanno bene alla salute e la mia era di quella razza. Anche Irène Némirovsky nel suo romanzo più biografico, Il vino della solitudine, dice che “un’infanzia rovinata, quella non si perdona”. “È una specie di trauma cellulare, le cellule hanno una memoria, e andare a frugare là in mezzo è come fare un’incursione nel DNA” (AM HOMES in conversazione con J. Winterson). C’è qualcuna/o fra voi che è stata/o figlia/o di una madre bipolare, affetta da sindrome maniaco-depressiva? Spero di no. In ogni caso Stop Movie è il romanzo della rabbia, del distacco e della conquista della libertà.

 

 

 

 

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