Povera bestiola quel Cardellino e povera umanità

Una mia carissima amica, raffinatissima lettrice, mi ha ordinato di leggere Il Cardellino di Donna Tartt, che ha comprato per rilassarsi in spiaggia, una volta raggiunta trasportando l’edizione cartacea giù per la scogliera. Me l’ha ordinato perché imparassi a scrivere un bestseller, cioè imparassi a metterci tutti gli ingredienti necessari per scalare le classifiche.
L’ho fatto, interrompendo il mio programma di letture, e naturalmente la trama mi ha attanagliato come ha attanagliato migliaia di lettrici e di lettori in tutto il mondo. Non voglio fare della facile critica, quando ne sono bersaglio mi amareggia terribilmente. Mi ha solo meravigliato il fatto che nel 2009 Elizabeth Strout vinceva il Pulitzer con Olive Kitteridge (che consiglio nel modo più categorico insieme ai suoi Amy e Isabelle e Resta con me) e che nel 2014 sia stato assegnato a Donna Tartt, già autrice di altri due bestseller. Ho scorso la lista dei Pulitzer dal 1948, anno della fondazione, e sì, forse i criteri per l’assegnazione del premio sono meno omogenei di quanto pensassi, anche se, per esempio, a conferma delle mie illazioni, nel 1988 se lo aggiudica Toni Morrison con Amatissima e nel 1989 Anne Tyler con Lezioni di respiro, due romanzi inarrivabili, fra le cose più belle che siano mai state scritte. Fra gli altri c’è anche gente del calibro di Joyce Carol Oates, Philip Roth, Cormac McCarthy…
Alla fine, aldilà delle riflessioni filosofiche sul caso e sulla circolarità, sulla bellezza, sull’arte e sull’antiquariato, sulle tortuose strade che conducono al bene o al male, compresa l’arrischiata ipotesi per la quale le strade del male potrebbero anche condurre al bene (non è mai tutto bianco o tutto nero), due aspetti del romanzo mi hanno profondamente impressionato e, non scherzo, quasi fisicamente contagiato. Il primo è il quadro del fiammingo Fabritius (1654) che l’autrice approfondisce in modo eccellente nelle ultime pagine. C’è tutta la dignità e la “naturalità” del cardellino, benché sottoposto a (dis)umana tortura, e c’è quella terrificante sottilissima catenella emblema dell’indifferente empietà del genere umano. Dell’empia indifferenza del genere umano. Della genetica carenza di empatia, della sua catastrofica arroganza. La banalità del male, diceva Hannah Arendt. La banalità del male. Confesso che in pittura non l’avevo mai vista rappresentata con tanta eclatante evidenza.
Il secondo aspetto è il livello di tossicità totale di Theo e del suo amico Boris. Ignoravo che un corpo umano potesse essere così resistente a maltrattamenti sistematici e prolungati (cominciano da adolescenti) e mi ha davvero colpito l’insistenza con la quale sono stata introdotta e ostinatamente trattenuta nell’universo dell’alcolismo, delle sostanze e delle droghe. Mi aspettavo che prima o poi uno dei due ci lasciasse le penne, per restare in metafora ornitologica. Neanche per idea. Forse uno sconto per essere entrambi orfani di madre. Ma chiudere così suonerebbe sarcastico. Bellissima invece, la loro amicizia, un rapporto d’amore sublimato, anche attraverso la trasgressione.

 

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