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“Odissea di femminismo e amori”. Scritture a cerchi concentrici

“Odissea di femminismo e amori” è il titolo che Silvia Neonato, giornalista e presidente uscente della Società Italiana delle Letterate (SIL), ha voluto dare alla sua recensione di “Odissea. Cronache d’incoscienza e di vita estrema”, il mio secondo romanzo.
La cosa fantastica di quando si scrive una storia vera per farla conoscere a chi non la sa è
che dopo, con un po’ di fortuna, sperando, disperando, attendendo, questa storia viene inscritta/trascritta/riscritta in una storia collettiva più ampia grazie ad altre scritture
che l’adottano e continuano a trasmetterla e a conservarla. Non c’è risultato più bello. Come dice Elena Ferrante “Per scrivere bisogna desiderare che qualcosa ti sopravviva”.
Se questo qualcosa è l’esperienza umana e militante di una donna straordinaria come Marina Genovese e di un gruppo di donne durante un ventennio, allora sono riuscita nell’intento.  Ecco due esempi illustri di scrittura a cerchi concentrici. Il primo link è
alla recensione di Silvia Neonato, attivissima colonna portante della SIL, il secondo è
alla recensione di Giovanna Romualdi, giornalista nella redazione de “il foglio del paese delle donne” per vent’anni e tuttora de “il paese delle donne on line”.
Grazie Silvia. Grazie Giovanna. Anche da parte di Marina e della sfamiglia.

http://www.societadelleletterate.it/2015/01/odissea-di-femminismo-e-amori
http://www.womenews.net/%E2%80%9Codissea%E2%80%9D-il-nuovo-romanzo-di-cristina-zanetti/

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L’aria tra le stecche. La scrittura secondo Elena Ferrante

… io volevo essere diversa, volevo scrivere storie di donne dalle molte risorse,
donne di parole invincibili, non un manuale della moglie abbandonata con l’amore
perduto in cima ai pensieri. Ero giovane, avevo pretese. Non mi piaceva la pagina
troppo chiusa, come una persiana tutta abbassata. Mi piaceva la luce, l’aria tra le stecche.
Volevo scrivere storie piene di spifferi, di raggi filtrati dove balla il pulviscolo.
E poi amavo la scrittura di chi ti fa affacciare da ogni rigo per guardare di sotto
e sentire la vertigine della profondità, la nerezza dell’inferno.

Da Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono, 2002

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Scrittura come nostalgia: Typewriter di Sandy Skoglund

Tempo fa’ ho scritto un articolo intitolato “Scrivere: dal bianco siderale al rosso fluido”,
nel quale paragono la scrittura al disgelo e descrivo il processo non solo a parole ma anche con una fotografia che ho studiato per rappresentare la solitudine dell’inizio.
Camminando per i padiglioni di Arte Fiera Bologna 2013, ho incontrato una scultura di Sandy Skoglund, fotografa surreale di fama internazionale, che fornisce un’interpretazione della scrittura decisamente più romantica della mia. Rimanda a un’arte che non ha ansie, si dà il tempo di camminare nei boschi e quando rientra dev’esserci un camino da qualche parte dove crepita il fuoco. Ecco la mia foto della sua bellissima Typewriter.

Typewriter di Sandy Skoglund (copyright cristina zanetti)

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Isabel Allende. La mia missione non è protrarre l’odio…

… bensì unicamente riempire queste pagine

Sono le ultime righe del monumentale romanzo (d’esordio!) “La Casa degli Spiriti”
di Isabel Allende. Un’altra penna estrema della letteratura mondiale, Alice Munro,
dice in uno dei suoi densissimi racconti: “L’odio è sempre un peccato…
Tienilo a mente. Una sola goccia d’odio nell’anima si può diffondere
e macchiare tutto il resto come una goccia d’inchiostro nel latte”.
Frase semplice, terapeutica, chimicamente scientifica.
Arriva un momento nella vita in cui ci si rende conto che la missione da compiere,
oltre all’impegno quotidiano, è lavorare indefessamente per mantenere viva
la Memoria e rendere merito alle persone che con la loro parabola politica e umana
hanno segnato profondamente la nostra vita pubblica e privata.
Ogni tentativo di nascondere il loro passaggio è destinato a fallire.
Ogni tentativo di cancellare quel che è stato pure.
La mia missione non è protrarre l’odio bensì unicamente riempire queste pagine…

 

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Flannery O’Connor. La signorina Willerton si sedette alla macchina per scrivere…

… e fece un respiro profondo. Allora! Cosa aveva deciso? Ah, sì. Fornai. No, i fornai non andavano bene. Non c’erano tensioni sociali connesse ai fornai. La signorina Willerton restò seduta con gli occhi sulla macchina per scrivere senza vederla. ASDFG: il suo sguardo vagò sui tasti. Ummm. Insegnanti?, si chiese la signorina Willerton. No. Santo cielo, no.

C’è un racconto di Flannery O’Connor intitolato “Il raccolto” che prende di mira un’illusione abbastanza diffusa. Lo consiglio caldamente a tutte/tutti coloro che si ritengono grandi scrittrici e scrittori. Naturalmente ci ho fatto i conti per prima, ridendo innanzitutto di me. Lo trovate nell’edizione italiana dei tascabili Bompiani “Tutti i racconti”. Ecco un passaggio dei più esilaranti.

Ecco! Ma certo! Ora sapeva! Le sue dita frullarono eccitate sopra i tasti della macchina, senza toccarli. Poi, all’improvviso, cominciò a scrivere a gran velocità.
“Lot Motun” scrisse la macchina, “chiamò il suo cane”. La parola cane fu seguita da una brusca pausa. La signorina Willerton era bravissima con la frase d’attacco. “Le frasi d’attacco”, diceva sempre, “ le venivano… di botto!”. “Di botto, ecco!” diceva, e faceva schioccare le dita. “Di botto!”. E su di esse costruiva il racconto. “Lot Motun chiamò il suo cane”, le era venuta automaticamente, e rileggendola la signorina Willerton decise che non solo Lot Motun era un buon nome per un mezzadro, ma anche chiamare il cane era proprio la cosa giusta da fare…

 Non vi dico come va a finire, il travaglio si svolge in sole dieci paginette.

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Jeanette Winterson. Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa

Ho letto il secondo romanzo autobiografico, dopo “Non ci sono solo le arance” del 1994, di Jeanette Winterson intitolato “Perché essere felice quando puoi essere normale?”. Questa domanda, che è tutta un programma, le veniva posta dalla madre adottiva, la terribile, fanatica, anaffettiva Mrs Winterson. Dice Jeanette a un certo punto: “Io avevo bisogno delle parole perché le famiglie infelici sono cospirazioni di silenzio. Chi rompe il silenzio non viene mai perdonato. Lui/lei deve imparare a perdonarsi”.
In questo mese di aprile sto tentando di non affogare intorno alla boa (capitolo) numero 30 del mio secondo romanzo, che ne prevede almeno altri cinque o sei. E ancora una volta le considerazioni di Jeanette Winterson sulla scrittura confermano la mia incessante sensazione che il lavoro più grande consista nel decidere cosa dire e cosa passare sotto silenzio e che in fondo il vero romanzo sia quello non scritto.

“La verità è molto complessa per tutti. Per uno scrittore le omissioni rivelano tanto quanto le cose dette. Che cosa si cela oltre il margine del testo? Sono tante le cose che non riusciamo a dire perché sono troppo dolorose. Ci auguriamo che le cose che riusciamo a dire attenuino la sofferenza del non detto o in qualche modo la plachino.
Le storie sono una forma di compensazione. Il mondo è ingiusto, iniquo, inconoscibile, incontrollabile. Nel raccontare una storia esercitiamo il controllo, ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. È una versione possibile, non è mai la definitiva. E forse speriamo che i silenzi vengano ascoltati da qualcun altro, e che la storia possa continuare, possa essere riraccontata. Quando scriviamo offriamo una storia e un silenzio.
Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa”.

Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale?, 2012

 

 

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