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Jeanette Winterson. Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa

Ho letto il secondo romanzo autobiografico, dopo “Non ci sono solo le arance” del 1994, di Jeanette Winterson intitolato “Perché essere felice quando puoi essere normale?”. Questa domanda, che è tutta un programma, le veniva posta dalla madre adottiva, la terribile, fanatica, anaffettiva Mrs Winterson. Dice Jeanette a un certo punto: “Io avevo bisogno delle parole perché le famiglie infelici sono cospirazioni di silenzio. Chi rompe il silenzio non viene mai perdonato. Lui/lei deve imparare a perdonarsi”.
In questo mese di aprile sto tentando di non affogare intorno alla boa (capitolo) numero 30 del mio secondo romanzo, che ne prevede almeno altri cinque o sei. E ancora una volta le considerazioni di Jeanette Winterson sulla scrittura confermano la mia incessante sensazione che il lavoro più grande consista nel decidere cosa dire e cosa passare sotto silenzio e che in fondo il vero romanzo sia quello non scritto.

“La verità è molto complessa per tutti. Per uno scrittore le omissioni rivelano tanto quanto le cose dette. Che cosa si cela oltre il margine del testo? Sono tante le cose che non riusciamo a dire perché sono troppo dolorose. Ci auguriamo che le cose che riusciamo a dire attenuino la sofferenza del non detto o in qualche modo la plachino.
Le storie sono una forma di compensazione. Il mondo è ingiusto, iniquo, inconoscibile, incontrollabile. Nel raccontare una storia esercitiamo il controllo, ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. È una versione possibile, non è mai la definitiva. E forse speriamo che i silenzi vengano ascoltati da qualcun altro, e che la storia possa continuare, possa essere riraccontata. Quando scriviamo offriamo una storia e un silenzio.
Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa”.

Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale?, 2012

 

 

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