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Mezza ianara, mezza briganta. Licia Giaquinto, la rispondessa

Ha la risposta pronta: quando parla è diretta, quando scrive è attraversata dalle storie.
Il suo modo è uni(vo)co, gravido di certezze, come il ventre da cui scrive. Esse non derivano dalla scienza dei fatti osservabili ma dalla visione sottostante retrostante sovrastante delle forze che li governano e li mantengono in relazioni circolari. Le chiamano, per gusto di catalogazione ed esorcismo razionale, mitologie magico-arcaiche.
Licia Giaquinto le rende credibili e consolatorie, perché tutto ha una spiegazione, tutto e il contrario di tutto. Scrive infatti, con grande naturalezza: “Per non sentirsi una ladra deve ripetersi che è stata la stessa Signora a regalarle il vestito per quando le cose si sarebbero capovolte nel loro contrario”. Come se fosse ovvio. E davvero lo è. Capita di continuo.
Se la si trascina sul terreno del linguaggio filosofico, in particolare su quello della gnoseologia – il discorso sulla conoscenza – e le si chiede del rapporto io-realtà, vi sciorina
i nomi degli austeri signori che nel corso dei secoli si sono arrovellati sul busillis, rivelando conoscenze insospettabili e inopportune per una strega.
Lei, infatti, assomiglia un po’ alle sue ianare, che sentono e vedono oltre le porte (ianua) di comunicazione fra le dimensioni parallele dell’esistenza. Non crede al tempo lineare né alla legge causa-effetto per derivazione diretta, bensì a una convergenza e a un intreccio più complesso e sapiente di concause: “… e così era già scritto che quella mattina la contessa Rosalba dovesse cacciare Filomena con una ingiusta accusa, perché venisse a trovarsi nello stesso luogo e nello stesso istante in cui…”. Oppure: “… troppe cose si erano infilate come i grani di un rosario sullo stesso filo per fare una corona perfetta, quel giorno”.
La sua scrittura selvatica, odorosa di terra, legna e muschio, di volpi serpi lepri conigli cinghiali bacche di alloro fichi grotte di tufo ortiche gramigne (senza virgole come fa lei quando ha fretta di dire tutte le cose che ci sono) ci precipita nell’incantesimo della natura antropomorfa dove il canto del cucù e del tordo e l’ululato del lupo e il vento nel castagneto parlano a chi sa ascoltare, in un dialogo pieno di pathos, che non prevede graduatorie fra esseri viventi, a qualsiasi regno appartengano. Compresi i sassi e le pietre che sembrano inerti e invece custodiscono la memoria della materia pe(n)sante. Di quella corporea mostra gli umori, nel senso di emozioni e secrezioni.
Anche passato presente futuro sono un tutt’uno. “Niente di ciò che è stato si perde. Uomini, donne, fiori, animali, piante: ogni cosa conserva la traccia della propria esistenza anche quando non esiste più. Glielo hanno insegnato sua madre e sua nonna in un tempo remoto sprofondato in un pozzo”.
Ho scelto alcuni brani da “La ianara” e “La briganta e lo sparviero”. Ma bisognerà leggerli per intero, i due romanzi, per comprendere la profonda umanità dell’artista. (altro…)

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