Volo sulla tastiera trascrivendo parola per parola. Sento che ognuna è perfetta
e insostituibile. Volendo riscrivere la scena s’incapperebbe nelle stesse parole,
non ce ne sono altre. Sono le parole per dirlo. Le dita corrono sui tasti fingendo di
prenderle direttamente dal cervello. È una finzione esaltante, ebbrezza allo stato puro. Fingo di scrivere la sua scrittura. L’atto di digitare parole già cercate e scritte comporta una specie di apprendimento effimero, volatile. Non importa. È bello lo stesso farsi
sballottare dentro la tromba d’aria.
Da Elena Ferrante, L’amica geniale
Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi, a pettinarsi,
a vestirsi. Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul bordo del letto in mutande
e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che pareva il corpo di una morta: davanti,
sul pavimento a esagoni, c’era la conca di rame ricolma d’acqua fumante.
(…)
“Dai, aiutami, che sennò faccio tardi”.
Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere la testimone coinvolta della sua bellezza
di sedicenne poche ore prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola. Allora fu solo una tumultuosa sensazione di sconvenienza necessaria, una condizione in cui non si può girare lo sguardo dall’altra parte, non si può allontanare la mano senza riconoscere il proprio turbamento, senza dichiararlo proprio ritraendosi, senza quindi entrare in conflitto con l’imperturbata innocenza di chi ti sta turbando, senza esprimere proprio col rifiuto la violenta emozione che ti sconvolge, sicché ti obblighi a restare, a lasciarle lo sguardo sulle spalle di ragazzo, sui seni coi capezzoli intirizziti, sui fianchi stretti e le natiche tese, sul sesso nerissimo, sulle gambe lunghe, sulle ginocchia tenere, sulle caviglie ondulate, sui piedi eleganti; e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia, intorno il mobilio miserabile, su un pavimento sconnesso chiazzato d’acqua, e ti agita il cuore, ti infiamma le vene.
La lavai con gesti lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda, calma. Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei, baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la sporcasse nel corso della notte. La immaginai, nuda com’era in quel momento, avvinta al marito, nel letto della nuova casa, mentre il treno sferragliava sotto le loro finestre e la carne violenta di lui le entrava dentro con un colpo netto, come il tappo di sughero spinto dal palmo dentro il collo di un fiasco di vino. E mi sembrò all’improvviso che l’unico rimedio contro il dolore che stavo provando, che avrei provato, era trovare un angolo abbastanza appartato perché Antonio facesse a me, nelle stesse ore, la stessa identica cosa.