L’arte ha un sesso?

Non tutto nella vita è bianco o nero. Ci sono questioni complesse che prevedono delle sfumature ed è proprio la gamma dei grigi che ci frega.
La mia risposta alla domanda “L’arte ha un sesso?” è sperimentale:

SI (forse) per quanto riguarda i contenuti
NO
(forse) per quanto riguarda le tecniche e gli strumenti

Ha sicuramente un sesso chi ha escluso per secoli le donne dalla storia, dalla politica, dalle sedi decisionali e dall’arte e chi, tenendole nell’ombra e comunque sottoposte, ha attinto alla loro potente ispirazione artistica e l’ha portata alla ribalta del mondo come propria (prendiamo il caso di Auguste Rodin e Camille Claudel).

(Considero la musica – priva di testi – un caso a parte. Vedi in questo Blog Tematiche eruttive periodiche/Musica: la seduzione androgina)

Le ragioni del sì (forse). La rappresentazione finale

L’arte è corporeità, umoralità, sensibilità, interiorità. È visione, intenzione, direzione, tensione, scelta…
Scelta del soggetto,  prima di tutto: cosa voglio rappresentare > come voglio rappresentarlo. Qual è il mio discorso. Questo è il mio discorso.

L’arte non è soltanto questione di tecniche e di strumenti, siano parole, colori, immagini, materiali (marmo, creta, vetro) obbiettivi fotografici, scalpelli… Saperli utilizzare è indispensabile ma è la rappresentazione generale quella che rivela lo sguardo dell’artista, che contiene l’intenzione, il significato, il diverso angolo di ripresa, e con esso il genere.
Attraverso la cura di certi particolari, oppure attraverso la loro negligenza, si rivela, anche nella letteratura d’intrattenimento o nel cinema d’evasione o in altre espressioni creative più leggere, l’appartenenza a un genere.
Il fatto che esistano donne che si fanno interpreti di un immaginario e di un simbolico maschile e, assai più raramente,  che esistano uomini interpreti di un immaginario e di un simbolico femminile è un discorso che ci porterebbe da un’altra parte. Ci preme qui sottolineare che le differenze (di genere) non possono neppure limitarsi allo schema binario donna-uomo poiché esso non rappresenta tutte le identità,  le menti e i corpi possibili.

Le ragioni del no (forse). Gli strumenti, le tecniche, ma anche gli studi
di psiconeurolinguistica, di fisiologia della percezione…

Parole, colori, suoni… e le tecniche per combinarli insieme sono neutri? Da dove provengono, chi li ha inventati? Nel caso della lingua viene da chiedersi se addirittura le singole parole non abbiano un sesso, l’evoluzione della lingua e l’attestarsi nell’uso comune di certe parole a scapito di altre infatti sono il risultato di lunghi processi multifattoriali in cui i valori della cultura dominante rivestono un ruolo fondamentale. Prendiamo invece la pittura: e se gli studi di fisiologia della percezione scoprissero che il tratto, la scelta del colore, il colpo d’occhio, la luce, sono diversi per una pittrice e per un pittore? Nella copia dal vero: un vaso di fiori, un paesaggio? E l’astratto?

 

Due casi esemplari di arte donna

1. Doris Lessing
Premio Nobel per letteratura 2007. Da Un matrimonio per bene.
Parte seconda: “E ricordatevi che fare un figlio è una cosa perfettamente naturale”


Stavolta Martha si ritrovò rannicchiata sul pavimento, stupita e furiosa per la violenza della contrazione. La doglia l’aveva come divorata; e lo sgomento per essersi lasciata cogliere di sorpresa la persuase a rimettersi sul lettuccio, dove poteva stare attenta a ciò che accadeva, e quella sua sentinella tenerla sempre sul chi vive, di fronte al nero mare che le s’apriva davanti. Attenta, rigida, tutta tesa, sentiva il bambino snodarsi, slanciarsi verso il basso; poi il bambino rinculava, riprendeva fiato, e Martha con lui. Le doglie si fecero diverse… La prendevano alla schiena, poi al ventre, poi era come se lei e il bambino fossero strizzati assieme da un paio di enormi mani d’acciaio.


Martha non aveva più la forza di sorridere. Quella piccola zona di luce dentro al suo cervello, niente da fare, le doglie un po’ alla volta la offuscavano. E ogni volta poco mancava che la luce non si spegnesse del tutto; ma sempre, stentatamente, riprendeva, tornava a brillare.


dal momento in cui l’ondata calda del dolore cominciava a risalirle su per la schiena, Martha entrava in un luogo dove il tempo non esisteva. L’afferrava allora una sofferenza talmente incredibile da lasciarla sbalordita, mentre la sua coscienza di ribellava, protestava: un dolore simile non era possibile che esistesse. Ed era infatti una pena così atroce che non più di dolore si trattava ma di una condizione dell’essere. Ogni particella di carne urlava, mentre l’ondata partiva da un qualche punto della spina dorsale, e l’attraversava, come una corrente elettrica, una scossa dietro l’altra. E tuttavia, proprio quando a Martha pareva di doversi disintegrare sotto la sua azione, l’ondata rifluiva…


“Per amor di Dio”, disse Martha al proprio bambino: “Vieni fuori di lì, presto”. Ma il bambino s’era rannicchiato, preparandosi al prossimo balzo in avanti, e Martha vedeva il ventre rattrappirsi, indurirsi in una nuova contrazione. Stavolta un grido le uscì dalle labbra, lo intese bene. Ma non se ne curava più. Lottava per un’unica cosa, tirarsi fuori al più presto da quegli abissi…

Le eccezionali parole della scrittrice provengono dalla carne viva. Uno scrittore avrebbe saputo fare altrettanto, descrivendo un parto? Pensiamo di no, anche se i grandi sono dotati di fervida immaginazione e di elevati livelli di empatia. Analizzando inoltre l’impalcatura di una storia, di una narrazione, per esempio la stessa trama, la scelta delle situazioni, i comportamenti dei personaggi e naturalmente la conclusione o epilogo, ci accorgiamo che ciò che viene dato per assoluto non lo è, nasconde sempre la visione del mondo dell’autrice e dell’autore. Finale punitivo: la fuga della protagonista (una ribelle poco di buono) fallisce e lei muore suicida. Finale liberatorio: la fuga della protagonista (una ribelle poco di buono) riesce, lei si mette in salvo e si rifà una vita.

2. Judy Chicago

Prendiamo adesso la celeberrima installazione permanente “The Dinner Party” di Judy Chicago (1939) esposta al The Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art al quarto piano del Brooklyn Museum di New York. È un esempio estremo, eccellente.
Icona dell’arte femminista degli anni Settanta, è una pietra miliare dell’arte del XX secolo. Banchetto cerimoniale triangolare con 39 posti a tavola, ognuno dei quali commemora una donna importante della storia. Nella foto di destra, Virginia Wolf. Ogni set consiste di un arazzo ricamato,  un calice d’oro, posate, e un piatto dipinto di porcellana cinese con un motivo centrale a forma di vulva o farfalla e diversamente stilizzato da donna a donna. I nomi di altre 999 donne sono scritti in oro sul pavimento rialzato di piastrelle bianche sotto il tavolo. L’opera è stata creata fra il 1975 e il 1979 da centinaia di volontarie supervisionate da Judy Chicago, che spiega: « è nata per spezzare la catena di omissioni che hanno escluso le donne dalla storia». Si tratta di un manifesto e di un atto di ribellione, prima che di un’avventura estetica. All’epoca fu uno scandalo, ma sono sicura che “The Dinner Party” fa un certo effetto anche oggi.

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Intervistata sul futuro della scrittura delle donne Jeanette Winterson ha risposto:

Il nostro lavoro di riscriverci, di ridipingerci, di rifotografarci, cercando di fare trasparire l’identità di qualcosa che è altro dall’uomo, è appena cominciato. L’espressione della creatività femminile è un fenomeno recente. Penso che gli elementi perturbanti popoleranno la narrativa femminile ancora per un bel po’. Perché sono l’espressione concreta, l’incarnazione del senso di spaesamento, di disturbo e di inquietudine che abbiamo ancora dentro.

 

 

Scritto in L’arte ribelle: dal cinema, alla pittura, all’architettura… |

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